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Greenwashing è un neologismo inglese che nasce dall’accostamento del termine “green”, ovvero “verde” e “washing” ovvero “lavare”. Viene più semplicemente tradotto come ecologismo di facciata o ambientalismo di facciata ed indica la strategia di comunicazione utilizzata già a partire dagli anni ’70 da certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche: alla base delle scelte comunicative c’è l’obiettivo di costruire un’immagine di sé positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle conseguenze ecologiche delle proprie attività o delle proprie produzioni. Si tratta quindi di una comunicazione ingannevole.

Fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld ad utilizzare per primo, nel 1986, questo termine per smascherare la pratica delle catene alberghiere che invitavano gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, facendo leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria, quando in realtà le motivazioni erano economiche.

Fu l’aumento dell’attenzione dei consumatori rispetto alle scelte di acquisto etiche ed ecologiche ad incrementare, negli anni 90, l’utilizzo della pratica del greenwashing da parte di un ingente numero di aziende

In Italia, il greenwashing viene considerato pubblicità ingannevole ed è controllato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Diverse sono le sentenze di condanna emesse in questi anni, come quella ai danni della Snam, condannata nel 1996 per il suo slogan “Il metano è natura”, della San Benedetto, della Ferrarelle e della Coca Cola. 

Quindi, come si manifesta il greenwashing? E come possiamo riconoscerlo? 

The sins of greenwashing 

Ecco l’elenco dei cosiddetti sette peccati del greenwashing, ovvero comportamenti scorretti commessi dalle aziende che si dichiarano falsamente eco-friendly. 

  1. Sin of the hidden trade-off (compromesso nascosto): dichiarare l’ecosostenibilità di un prodotto basandosi solo su alcuni piccoli attributi, spostando l’attenzione da ciò che ha maggiore impatto ambientale.
    Es: “detergente ecosostenibile concentrato”. In questo caso l’attenzione è focalizzata sulla durata del prodotto in quanto concentrato implicando un minore consumo dei flaconi di plastica. Ciò però non tiene conto della composizione del prodotto che spesso, in quanto concentrato, contiene una percentuale maggiore di derivati del benzene risultando maggiormente inquinante.
  2. Sin of no proof (mancanza di prove): un’affermazione ambientale non sostenuta da informazioni di supporto facilmente accessibili o da un affidabile certificazione di terze parti
  3. Sin of worshiping false labels (falsa etichetta): inserire etichette false o certificazioni contraffatte o rilasciate da enti terzi autorizzati.
  4. Sin of fibbing (falsità): ovvero asserzioni ambientali che sono semplicemente false. Spesso si mente sulle emissioni di CO2, sull’impatto ambientale delle fasi di produzione, o su delle caratteristiche riportate sull’etichetta.
  5. Sin of vagueness (vaghezza): quando le indicazioni sul prodotto sono così generiche che il loro significato può essere frainteso o equivocato dai consumatori. 
    Ne sono un esempio i termini “naturale” e “sostenibile”. 
    Es: “Il nostro impegno per la sostenibilità: vogliamo che i nostri capi rispettino gli standard più altri in termini di ambiente, salute e sicurezza”: gli impegni, ovvero le modalità di raggiungimento degli standard, non sono precisati, così come non lo sono gli stessi standard.
  6. Sin of irrelevance (irrilevanza): inserire affermazioni ambientali anche veritiere ma non importanti o utili per i consumatori 
    Es: L’espressione “cotone naturale”. Partendo dal presupposto che tutto il cotone è naturale in quanto proviene dalle piante, ciò che piuttosto differenzia un cotone sostenibile da uno che non lo è sono fattori come: il consumo di acqua nelle coltivazioni, le tipologie di trattamento della terra e delle piante, la retribuzione dei coltivatori e trasformatori del prodotto, e altro ancora. 
  7. Sin of lesser of two evils (minore dei mali): un’indicazione che può essere vera per la specifica categoria di prodotto ma che rischia di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori della categoria nel suo complesso 
    Es: Di recente il settore automobilistico ha fondato la propria comunicazione sui sistemi utilizzati nei nuovi modelli per la riduzione delle emissioni. Sistemi decisamente utili ma che, considerando l’intero settore, non sono sufficienti a rendere “pulito” l’utilizzo di auto. Es: Le bag in cotone, utilizzate in sostituzione alle borse in plastica per la spesa, sono sicuramente una scelta eco-friendly, (in quanto possono essere utilizzate più volte e lavate in lavatrice) ma solo nel momento in cui il loro acquisto procapite è di numero limitato. Bisogna infatti tenere in considerazione l’impatto ambientale ed energetico delle coltivazioni intensive di cotone.  

Da non sottovalutare è la scelta del packaging, ovvero la confezione dei prodotti, una scelta essenziale alla vendita. Il consumatore attento all’ambiente è infatti suggestionato e attirato in modo inconscio da confezioni con elementi illustrativi e dai colori che richiamano gli elementi naturali: verde, marrone e blu. Questo sia per far percepire l’utilizzo di materie prime naturali, sia per rimarcare l’impegno nella salvaguardia dell’ambiente nella produzione di quel dato prodotto.    

Quali sono quindi i criteri che un’azienda dovrebbe rispettare per essere sostenibile?

Il concetto di sostenibilità non racchiude in sé soltanto la dimensione ambientale, bensì anche quella sociale ed economica legata ad un prodotto e al suo processo di produzione. Cosa vuol dire? Vuol dire che le aziende devono rispettare metodi di allevamento o coltivazione, il tetto massimo di risorse energetiche e naturali che si possono utilizzare, le condizioni di vita e lavoro di chi partecipa alla filiera di produzione e smaltimento, nonché i metodi di trasformazione e distribuzione.  

Perché la sostenibilità non si ferma alla filiera che porta il prodotto in negozio ma comprende anche un processo conclusivo costituito dalle modalità di smaltimento del prodotto e dei materiali di scarto derivati dall’intera filiera, che chiaramente devono essere conformi ai diritti umani e ambientali. 

La sostenibilità deve quindi riguardare sia le modalità di produzione che quelle di vendita, distribuzione e smaltimento; deve racchiude in sé valori immateriali più importanti del prodotto stesso. Dichiararsi sostenibili è sinonimo e garanzia di qualità, sfortunatamente anche quando non lo si è. Ed è proprio per queste motivazioni che le imprese trovano nella sostenibilità la garanzia migliore non solo per una consolidata e efficiente relazione con il consumatore ma anche per la propria reputazione sul mercato. 

Tenuto conto di ciò, il greenwashing ha un impatto anche sul consumatore stesso. 

Fino alla metà degli anni ’90 gli approcci “superficiali” delle imprese alla questione ecologica sono stati ben accettati dalla maggior parte dei consumatori che erano per lo più contenti di non pagare di tasca propria le eventuali differenze di prezzo tra un prodotto o un servizio poco attento all’ambiente e uno che invece lo era realmente. 

Tuttavia, con la possibilità di usufruire di informazioni in tempo reale, la consapevolezza del consumatore è cresciuta di anno in anno, concretizzandosi in azioni di selezione e comparazione dei prodotti da acquistare. 

Infatti, secondo il Global Corporate Sustainability Report della società di performance managment Nielsen, oggi il 66% dei consumatori è disposto a spendere di più per un prodotto sostenibile; percentuale che sale fino al 73% se vengono considerati solo i Millennials (i nati dal 1981 al 1996).  

Ed è anche per via di questa crescente attenzione del consumatore verso i retroscena della filiera che le aziende continuano ad attuare greenwashing. Ecco perché, secondo alcuni esperti, questo fenomeno non accenna a ridursi minacciando e sminuendo la credibilità di quella fetta di aziende invece realmente impegnate nel rispetto dell’ambiente.  

 Se quindi da un lato si ha avuto un incremento notevole della sensibilità sulle tematiche legate alla sostenibilità, dall’altro la sfiducia del consumatore aumenta gradualmente: secondo uno studio di Cone Comunications tra il 2008 e il 2012 lo scetticismo nei confronti del termine “green” è aumentato del 12%.      

Come possiamo quindi riconoscere le aziende realmente sostenibili? 

È complesso comprendere quali brand o aziende siano realmente sensibili alla sostenibilità dei propri prodotti e delle fasi della filiera ma esistono alcuni indicatori che possono agevolare l’impresa come: 

  • L’assenza di protagonismo e vanto per piccoli traguardi vagamente verificabili 
  • La reperibilità e la verificabilità delle fonti e dei dati 
  • Un’azione di divulgazione che non mira all’elogio del proprio brand ma piuttosto alla sensibilizzazione dei consumatori su fasi della filiera, spesso sconosciute ma che hanno un grande impatto ambientale 
  • L’esposizione delle proprie competenze, certificazioni ed etichette ambientali ottenute. Quest’ultimo è sicuramente Il miglior modo per accertare la veridicità della sostenibilità delle aziende. Importanti sono ad esempio le normative EMAS, ISO140001 e il GRS (Global Recycled Standard)

Come leggere le etichette ambientali

Le etichette ambientali hanno lo scopo di certificare il rispetto degli standard di un prodotto. Ne esistono di obbligatorie (come ad esempio le etichette energetiche degli elettrodomestici) e di volontarie. 

Quest’ ultime si suddividono in tre principali categorie:  

  • Etichette di tipo I: rilasciate da un ente indipendente dopo aver effettuato un processo di certificazione analizzando l’impatto ambientale dell’intera vita del prodotto. Ne è un esempio il marchio Ecolabel.  
  • Etichette di tipo II: riportano dichiarazioni ambientali promosse dal produttore stesso. Non esistono, però criteri di riferimento oggettivi o verifiche neutrali per accertare ciò che viene dichiarato. Ne sono un esempio il simbolo “reciclabile” o “green” sulle confezioni dei prodotti. 
  • Etichette di tipo III: uguali per tutti i produttori, riportano informazioni riguardanti alcune performance ambientali basando la propria analisi sulla metodologia LCA. Ne è un esempio l’EPD (Dichiarazione Ambientale di Prodotto).

    Probabilmente l’esplicazione delle fasi della filiera sulla confezione del prodotto, ad esempio tramite codice QR e un sito collegato che sia trasparente, faciliterebbe una scelta di acquisto sostenibile. Questo insieme all’utilizzo di metodologie condivise e universali che regolamentino sia la valutazione del prodotto sia la sua comunicazione sul mercato. Nonostante ci sia ancora molto da fare, in questo articolo potete già trovare alcune delle coordinate per imparare o continuare a muovervi in maniera sostenibile, senza smettere di pretendere ulteriori garanzie e trasparenza.  

FONTI 

rifo-lab.com/blogs/blog-di-rifo/green-washing
aggiornamentisociali.it/articoli/greenwashing/ researchgate.net/publication/331630061_GREENWASHING_A_Study_on_the_ Effects_of_Greenwashing_on_Consumer_Perception_and_Trust_Build-Up https://www.consumerlab.it/la-sostenibilita-influenza-le-scelte-dei-consumatori/
insidemarketing.it/glossario/definizione/greenwashing/