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Picciotto - StoryBorderLineStoryBorderLine ha fatto Goal! Si è chiuso il crowdfunding del ‘Picciotto’ (al secolo Christian Paterniti) che è arrivato al traguardo superando ampiamente la cifra richiesta, a dimostrazione che quando si tratta di offrirsi alla propria città, i palermitani non si tirano indietro.

Maghweb ha raggiunto Christian qualche giorno fa per farsi raccontare un po’ la sua storia e come nasce l’idea di questo nuovo progetto, che questa volta non è soltanto ‘metrica e basi’ ma si porta dietro tanto altro.

Vi lasciamo alle sue parole: buona lettura!

 

Cos’è StoryBorderLine?

StoryBorderLine è un progetto multimediale, partorito dallo stimolo di creare la differenza tra quella che è la scena rap e i miei contenuti. Oggi la musica la guardi moltissimo, YouTube ha cambiato i suoi connotati: ogni singolo, prima dell’uscita del disco, è quasi un film. Per questo ho pensato a StoryBorderLine non solo come un insieme di 12 storie musicali, ma ho voluto tradurle in video e in un libro che sto scrivendo con la mia compagna.

In questi ultimi anni mi sono appassionato molto allo storytelling e mentre scrivevo i primi testi per il nuovo lavoro mi sono divertito a fare un po’ l’attore: ho ‘switchato’ nelle varie personalità che raccontavano sia le sfumature del mio carattere, sia quelle dei soggetti in cui mi immedesimavo. Ho immaginato un film, sono partito da una sorta di sceneggiatura, un canovaccio che mi ha aiutato a creare i ponti tra i vari personaggi. La cosa mi ha stimolato tantissimo e mi ha permesso di trattare una decina di temi, alcuni nuovi altri intercettati nel mio passato. In questo nuovo lavoro c’è molta ricercatezza nel linguaggio, allo stesso tempo mi metto anche un po’ da parte: do il mio contributo nella scrittura, nell’interpretazione, ma faccio venir fuori i personaggi che ho inventato senza troppo sforzo di fantasia, perché le storie che narro sono le storie che viviamo in maniera individuale e collettiva tutti i giorni.

12 storie, una tra queste è la tua, come sono saltate fuori?

Sono venute fuori da sole, cominciando a scriverne una in particolare: la storia di una giovane escort, Silvia. Da quella si diramano e intrecciano tutte le altre, come una catena fatta di bene e male. Ho provato a scrivere in prima persona e al femminile, lasciandomi stimolare dal ruolo di questa donna molto forte. Non volevo rinchiudere in un semplice album questa storia, così ho iniziato ad immaginare come potevano essere la madre, il padre, il fratello di Silvia o addirittura il futuro figlio.

Nel tuo percorso di musicista, ma non solo, c’è qualcosa che non rifaresti e cosa invece vorresti fare?

Una cosa che rivendico tantissimo e che oggi mi porta in qualche modo a parlare di maturità è il percorso extramusicale, fatto di tutto quello che mi accompagna nella vita, dalla paternità alla prima occupazione di un centro sociale, dal primo doposcuola in spazi sgangherati al lavoro in un progetto contro la dispersione scolastica a Borgo Vecchio. In questi 10 anni i temi trattati nelle mie canzoni li ho vissuti in maniera diretta e collettiva con le varie realtà con le quali ho lavorato e continuo a militare. Forse non c’è qualcosa che non rifarei, rivendico tutto. Ma se penso a qualche piccolo rimpianto, forse quello di non aver creduto tantissimo quando avevo 25 anni nella musica come professione. La musica è sempre stata una conseguenza della vita che facevo, una sorta di valvola di sfogo e bastava così. Quando ho iniziato a scrivere l’unica cosa che mi interessava era arrivare ai ragazzini di Piazza Magione ai quali facevamo doposcuola: scrivevo quasi esclusivamente in dialetto e vedere quegli stessi  ragazzi cantare le mie canzoni o ascoltarle nelle suonerie dei loro cellulari per me era il massimo traguardo che potevo raggiungere. Quello era davvero importante, non io, la mia musica, ma il messaggio che veniva fuori.

anteprimaPicciotto

Quando devi fare tre lavori per vivere, pensare al futuro delle tue due figlie e avere ancora il sogno di poter fare il musicista di professione a 32 anni, ma vedi che il rap è un genere prettamente giovanile e magari ti ritrovi ad aprire l’ennesimo concerto di un rapper 25enne, che vende molti più dischi, ma che magari ha meno contenuti dei tuoi, è quasi normale chiedersi che cosa poteva succedere se avessi insistito un po’ di più da ragazzo.

Palermo, poi, è croce e delizia della mia formazione. Se da un lato chi prova a fare questo genere qui ha più difficoltà per il fatto che comunque rimani in strada, dall’altro è la strada stessa che ti permette di vivere alcune esperienze che poi si traducono in testi di una certa sensibilità e profondità.

Musica come motore di riscatto sociale. Ci racconti il tuo lavoro con le associazioni che operano nei quartieri e come il rap ti ha aiutato a portare avanti diversi progetti?

La storia del mio lavoro in ambito associativo ancora oggi ha dell’incredibile. Tempo fa era arrivata allo Zen la demo del mio primo disco. L’associazione Zen Insieme, che da anni opera nel quartiere, decide di coinvolgermi in un progetto chiedendomi di musicare delle interviste fatte ad alcuni adolescenti per farle diventare una sorta di rap. Da lì ho iniziato a sperimentare coinvolgendo ragazzini di 12 e 13 anni, chiedendo loro di mettere in rima le loro storie, i loro racconti. La cosa che ho notato sin da subito è stata quella forma di vergogna nell’appartenere a quel quartiere. Davanti a me avevo dodicenni che frequentano le scuole a San Lorenzo o “a Palermo”, come dicono loro, quasi sentissero di appartenere ad un’altra città. Non dicevano di essere dello Zen. L’idea di lavorare con loro ad un pezzo che parlasse di quel quartiere è stata la prima ad essere sviluppata. Da allora abbiamo iniziato a creare questa piccola “Posse”, la “Zen it Posse” che per anni mi ha accompagnato nei miei live in tour fuori da Palermo. Questa cosa ha aperto in loro un immaginario fortissimo, il riscatto di vedere altro, di uscire ma contemporaneamente di portarsi dietro quel quartiere.

Ho sempre cercato di far vedere lo spaccato positivo di quel quartiere, succede a Borgo Vecchio o a Brancaccio durante i laboratori di scrittura che tengo nelle scuole. I ragazzi a quell’età sono davvero ricettivi e puoi costruire qualcosa di alternativo e di concreto, anche partendo dalla musica. Picciotto - StoryBorderLine

Qual è il ruolo che la musica ricopre nei rapporti sociali e urbani? Come vorresti che si evolvesse nei prossimi anni questo rapporto, specie in una città come Palermo, borderline di per sé nonostante sia la quinta d’Italia?

Vorrei che la musica diventasse una forma di gioco e che allo stesso tempo accompagnasse quella possibilità di emanciparsi di cui parlo sempre. E le due ore a settimana scolastiche non bastano. Quando ad un ragazzo che frequenta la scuola media metti in mano una penna e gli chiedi di scrivere di sé, magari stimolandolo con dieci punti da cui partire, e poi gli chiedi di far suonare le parole che ha scritto in rima baciata, noti che attraverso questo processo guadagna una fortissima sicurezza in sé stesso. Il ragazzo torna a casa, l’indomani sa a memoria il suo rap e la volta dopo non si accontenterà di ripeterlo a memoria, ma vorrà migliorarlo, chiedendo l’aiuto del compagno di banco, scendendo nel quartiere e coinvolgendo il resto degli amici.

La musica, questo genere di musica, ti permette di entrare in connessione con la storia, con l’italiano, se vuoi anche con la matematica. Ma soprattutto con la personalità di un individuo che si sta formando, perché al di fuori della famiglia, gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale in quel campo e la scuola non può permettersi, specie nei quartieri popolari, di continuare ad essere vista dai ragazzi come un luogo ostile. Immaginate come sarebbe poter raccontare la storia di Napoleone in una versione rappata? È così che provo ad immaginare la scuola del futuro. Vorrei una società dove la cultura non sia elitaria, intrattenimento fine a sé stesso, come spesso capita in questa città.

Da queste ultime frasi è Picciotto a venir fuori come borderline, è la prima volta che sentiamo dire ad un ragazzo di riportare il rap a scuola e non di portarlo per strada in una versione gangster o “anti” a tutti i costi. Come vivi questo tuo stare fuori dalla linee? Sei inoltre fuori dai circuiti del rap nazionali, come ci si sente ad essere fuori sistema?

Mi sento borderline. Ed è quello che provo a raccontare nel disco. Questo confine che sta tra il disagio e il riscatto lo vivo, lo vedo negli sguardi e lo faccio mio tutte le volte che lo incontro.

L’essere fuori sistema mi accompagna da molti anni, ma a differenza di quando ero ragazzino, oggi cerco quel livello di conflittualità sana che può cambiare le cose. Per questo faccio del linguaggio un caposaldo. Ci sono due parole con cui spesso veniamo messi a tacere: sono libertà e democrazia. È un problema sul quale rifletto spesso, soprattutto se penso alle mie figlie o ai ragazzini ai quali do lezioni, o a chi è veramente borderline e vive in casa famiglia o sta in casa ma non ha una famiglia. Bisogna stare attenti alle parole, soprattutto a quelle di chi tiene un microfono tra le mani, di per sé un amplificatore, e due orecchie ricettive davanti.

Cos’è successo dopo il crowdfunding? Come lo hai comunicato?

Con il crowdfunding mi sono messo in discussione, ho dato molta credibilità al progetto che proponevo e ho cercato di stare sul pezzo il più possibile. Quest’esperienza mi ha dato la possibilità di scoprire tutto quello che c’è oltre: una fanbase talmente trasversale, fatta di nomi che non conosco e dai quali ho ricevuto mail con le loro donazioni. C’è il ragazzino che canticchia i tuoi brani in strada, ma anche la professoressa che pur non avendo mai ascoltato nulla di tuo ti ha visto lavorare a scuola e ha deciso di darti fiducia. Le condivisioni degli articoli pubblicati, il fatto di aver addirittura sforato il budget richiesto, tutto questo mi ha fatto un sacco piacere e mi ha sorpreso. Mi sono anche chiesto perché non ho mai incontrato queste persone ai miei concerti, ma la risposta è che probabilmente non frequentano i miei stessi posti e mi dispiace perché vorrei che si avvicinassero e li conoscessero.

Comunque non è stato semplice comunicare il progetto. Ho avuto una forte difficoltà ad essere sempre presente sui social, ho approfittato però del maggiore tempo libero durante le vacanze di Natale e ho giocato con i video, cercando di anticipare i caratteri dei personaggi che avrei trattato nel disco, ho tempestato di messaggi tanti contatti Facebook, e anche Alessia, un’amica, mi ha dato una mano con l’ufficio stampa. Ma posso dire che la spinta principale è stata il mio profilo Facebook.

Crowdfunding e Palermo. Come hai vissuto il fatto di chiedere un sostegno per un progetto sociale e non per scopi puramente personali, come purtroppo spesso accade in città?

Avevo già affrontato il tema rispondendo con un video messaggio allo spaccato negativo che J-AX aveva raccontato nel suo programma satirico Sorci Verdi: ci sono state tantissime esperienze belle, penso a quelle legate a Borgo Vecchio, che hanno contribuito a cambiare il volto di questa città, e altre negative.

Il crowdfunding è fiducia. Molti amici me lo hanno esplicitamente detto: “non pensare che stanno finanziando il tuo progetto, stanno finanziando te, il percorso di una persona vera che fa quello dice e non ha bisogno di mettere troppi lustrini al suo personaggio”. Questo da un lato mi ha fatto piacere, dall’altro, quando ad un certo punto della campagna ho dovuto impegnarmi di più per darle una spinta, ho avuto bisogno di equilibrare quello che è il mio personaggio con il progetto in sé. Oggi credo che il messaggio sia arrivato e mi sono già chiesto se in futuro potrei usare lo stesso strumento, potrebbe essere anche controproducente.

La cosa più bella è aver sentito la fiducia delle persone che hanno comprato, in una città dove non hai soldi, una cosa a scatola chiusa. Senza sapere se è valida, se la realizzerò, se ti piacerà. Ora, tutte le aspettative che sto sentendo e che si stanno creando devono essere superate.

Epifania Lo Presti
Gabriele Tramontana

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