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Kurdistan guerra isis

KurdistanDal suo inizio nel 2011, la guerra civile siriana ha causato oltre duecentomila vittime e circa 9 milioni di sfollati; secondo il Sohr (Syrian Observatory for Huma Rights) un terzo delle vittime sarebbero civili, e tra i rifugiati 2 milioni e 500 mila persone sarebbero fuggite verso Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq.

Sia in Siria, che nei Paesi limitrofi le organizzazioni umanitarie non riescono a operare in sicurezza, e spesso non possono ottenere informazioni certe sui profughi e sulle condizioni di vita all’interno dei campi che li ospitano. L’aggravarsi del conflitto tra giugno e agosto 2014, con lo sconfinamento delle truppe dello Stato Islamico in territorio iracheno, ha causato un ulteriore flusso migratorio che ha coinvolto in larga parte appartenenti alla minoranza ezida, in fuga dai numerosi massacri del califfato ai loro danni.

Nella regione del Kurdistan turco sono 265 mila i rifugiati che vivono nei campi profughi allestiti dal governo turco e dalle amministrazioni locali curde, mentre si stima siano decine di migliaia i rifugiati che non si sono presentati in alcun campo, che hanno varcato il confine turco siriano clandestinamente, o che hanno trovato accoglienza dietro il confine in altri modi.

La regione ha accolto sia profughi fuggiti dalla regione siriana del Rojava, controllata dai curdi, sia rifugiati provenienti dall’Iraq, principalmente ezidi e curdi iracheni. In particolare la cittadina di Suruc, immediatamente a nord del confine, ha aperto le porte agli abitanti di Kobane durante e dopo la battaglia, allestendo cinque dei sei campi nella zona, e accogliendo 172 mila persone fuggite, di fatto triplicando la propria popolazione in tre settimane.

I campi nei dintorni di Suruc hanno assorbito gran parte dei rifugiati di Kobane, nonché alcune minoranze etniche e religiose perseguitate dal califfato in Siria e in Iraq. I cinque campi organizzati e gestiti dall’amministrazione locale non hanno ricevuto alcun finanziamento esterno e nessun tipo di aiuti umanitari, le spese di gestione sono a carico delle amministrazioni vicine e i beni che arrivano all’interno del campo sono offerti dalle amministrazioni stesse, dai loro cittadini, e da quelle organizzazioni non governative che raggiungono i campi in prima persona.

Quando a marzo entriamo nel campo Balediyesi Sengal Gadir Kampi, nei pressi della città di Viransehir, questo è ancora abitato da circa duecento persone, diverse altre centinaia di sfollati lo hanno abbandonato, in cerca di fortuna in suolo turco, o diretti verso le città liberate dalle forze curde. Subito veniamo accolti dai profughi rimasti, i quali ci raccontano di appartenere alla minoranza degli ezidi, che in Iraq ha subito massacri e persecuzioni da parte delle milizie ISIS. newroz isis kobane guerraIl campo è composto da poche decine di tende, due bagni, un deposito, una tenda più grande adibita a scuola e qualche metro di terra coltivata; chi ci vive ha portato quello che poteva, e questo è uno di quei campi in cui gli aiuti internazionali non arrivano. Ad accoglierci è un uomo che indossa gli abiti caratteristici della propria etnia, e che si fa chiamare “Mamù”, parola che significa “nonno”, ma sembra racchiudere anche la figura di un anziano del villaggio; Mamù non è molto anziano, ha una sessantina d’anni, ma porta sulle spalle il carico di decenni di sofferenze: ci racconta di essere l’ultimo di diciotto fratelli, che alcuni di essi sono rimasti vittima delle persecuzioni di Saddamm, mentre altri sono stati uccisi nei massacri perpetrati di recente nei loro villaggi dal califfato, il quale ha rapito e ridotto in schiavitù le sue sorelle. Mentre ci guida attraverso il campo, Mamù ci spiega come questo viene gestito: con l’aiuto di volontari organizzano comitati formati da abitanti del campo, che stabiliscono i ritmi di vita, si occupano delle strutture presenti e della costruzione di quelle mancanti, e affrontano i problemi gestionali in totale libertà, ricevendo le risorse dalle città vicine. Chi ci vive, organizza il proprio campo in base alle proprie tradizioni, ricevendo tutto l’aiuto possibile dalle amministrazioni locali nei dintorni. Un altro abitante del campo ci racconta che per arrivare in Turchia hanno dovuto percorrere a piedi centinaia di chilometri, e superare le montagne al confine turco-iracheno, alcuni trasportando feriti. Tutto questo non sarebbe stato possibile se le forze curde non avessero coperto la loro ritirata e respinto l’ISIS a Mosul; prima dei massacri erano gente pacifica, disinteressata ai conflitti e rispettosa di qualunque altra etnia, ora affermano di dovere tutto ai curdi e al PKK, che li hanno difesi, e accolti. Qui non hanno quasi nulla, ma preferiscono la miseria di un campo da loro gestito, che sottostare alle angherie dei turchi. Una donna di nome Filiz ci racconta di essere scappata da un campo profughi allestito dalla Turchia: “Hanno di tutto in quei campi, cuscini, piumoni, una fornitura idrica ed elettrica, perfino delle mense e dei piccoli ristoranti, ma non ci trattano come esseri umani”. Veniamo a sapere che all’interno dei campi turchi è vietato parlare la lingua curda, e che le scuole al loro interno fanno lezione solo in turco e in arabo, lingue sconosciute a molti dei bambini che le dovrebbero frequentare; in questi campi viene limitata la libertà di movimento, e l’organizzazione è in mano a Mehmethay Ozdemir un parlamentare turco, con l’ausilio di militari che controllano la sicurezza e la logistica del campo. Sebbene il direttore del campo abbia fatto stampare delle brochure per invitare gli sfollati a trasferirvisi, attualmente sono solo cinquemila ad abitarci, a fronte di una capienza di 35mila persone.

kobane kurdistan newrozIl sindaco di Viransehir, Filiz Ylmaz, che ci ha accompagnato nel campo, ci spiega che i rifugiati si tengono lontani dai campi gestiti dai turchi per una questione culturale: preferiscono poter mantenere la loro lingua e le loro tradizioni al vivere tra i confort, ma senza libertà. Sebbene gran parte dei profughi si trovi nei campi curdi, il governo di Ankara dirotta tutti gli aiuti internazionali sui propri campi, e pone ostacoli alla gestione degli altri campi, negando l’allaccio alla rete idrica, e intercettando alla frontiera i medicinali diretti verso di essi. Ci dicono anche che mentre nei campi turchi vengono gestiti medicinali gratuitamente, il governo fa pagare le tasse su quelli diretti ai campi curdi (circa il 20% del costo al dettaglio).

Oltre ai campi profughi, sono sorti diversi insediamenti vicino il confine turco siriano, Misentere è uno di questi: un villaggio di una trentina di abitanti, tirato su con calce e tufo, in cui vivono pastori con i propri animali. L’unico edificio di proprietà di tutti, è una specie di monumento alla resistenza curda: tre stanze scavate nella terra, le cui pareti sono ricoperte dalle centinaia di foto dei caduti nella battaglia di Kobane, oltre che dalle immagini di giornalisti e politici curdi, uccisi negli anni dal governo turco; dentro il mausoleo improvvisato, si trovano decine di scaffali stracolmi di libri, a disposizione di tutti gli abitanti, con autori da tutto il mondo, da Nelson Mandela, a Malcom X, a Gandhi.

Ciò che colpisce di più è la forza di volontà di questo popolo, che anche in situazioni di assoluta miseria non perde la speranza, e non si rassegna. La vittoria a Kobane, nonostante l’inferiorità numerica, e la complicità tra Turchia e IS, ha avuto un effetto galvanizzante su tutti gli sfollati che abbiamo incontrato, e che penso sia ben espressa da ciò che mi ha detto un ex abitante di Kobane, incontrato a Misentere: per Mustafa Fathi, i curdi sono usciti dall’oscurantismo rappresentato dallo stato islamico, e sebbene questo collabori con la Turchia per sottometterli, loro gli sopravvivranno, come hanno fatta contro ogni persecuzione che hanno subito in ogni territorio da loro abitato, di cui il califfato è solo l’ultimo esempio.

di Andrea Governale

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