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“Vado sei mesi e torno”. Invece in Colombia ci è rimasta dieci anni. Sabrina Drago, attivista palermitana, responsabile dell’associazione Corporación Amiga Joven, è uno dei tanti talenti italiani che all’estero hanno trovato terreno fertile per far crescere le proprie ambizioni e speranze. Dopo aver lavorato nel mondo della cooperazione internazionale in Tanzania, Kenya ed Etiopia, ha scelto Medellìn – città seconda a Bogotà ma conosciuta quasi esclusivamente in relazione al cartello dei narcotrafficanti – come luogo dove poter concretizzare il suo impegno per la difesa dei diritti umani.Tornata a Palermo per pochi giorni in occasione del progetto firmato Maghweb The Sound of Silence, Sabrina ha portato con se Bris Pino Rojas, giovanissima attivista di Amiga Joven che, in 21 anni di vita, non aveva mai messo piede fuori dal suo barrio e che con grande stupore ha percorso quei 9000 chilometri che separano il Sudamerica dalla Sicilia. Nonostante le estreme difficoltà socio-politiche Sabrina si spende quotidianamente nella difesa e nell’emancipazione delle donne e delle ragazze colombiane in una città in cui la diseguaglianza sociale è una grande piaga: “L’80% della popolazione vive in condizioni di povertà mentre il 20% della popolazione vive nel lusso. È un contesto dove non esiste una classe media e la sproporzione è incredibile”.

Rosalba Marchese spiega il progetto The sound of silence

Ma il macigno più importante è l’eredità di una guerra che dura da sessant’anni e il cui accordo di pace, firmato solo pochi mesi fa, non sembra ancora portare ad una normalizzazione delle tensioni sociali. Insignito di un premio Nobel per la pace «per la sua determinazione nel mettere fine alla guerra civile nel paese che durava da più di 50 anni», il presidente della Colombia Juan Manuel Santos deve ancora fare i conti con gli strascichi di un conflitto con le FARC che dal 1964 ha causato 220 mila morti: è stata la più lunga guerra dell’America Latina.

Qual è il contesto in cui lavori?
Sabrina: Le donne colombiane sono vittime di violenza sessuale legata al conflitto sociale, politico e armato che in Colombia si protrae da più di 60 anni. L’87% dei casi di violenza avvengono nel contesto familiare. Moltissime coordinatrici e donne che difendono i diritti umani lottando tramite le organizzazioni, sono esse stesse vittime di violenza di genere. Cerchiamo di accompagnare le ragazze dei quartieri in un percorso che permetta loro di avere un’altra visione della vita, per far sì che possano sognare un altro mondo possibile, che possano credere innanzitutto in loro stesse. Ma è una lotta quotidiana con le ideologie. Su cinquanta persone con cui stai lavorando probabilmente solo cinque cambieranno mentalità. È un lavoro lento che va compiuto ad ampio raggio. All’inizio era frustrante, lavoravo ai programmi di prevenzione delle gravidanze in adolescenza, visto che già a 13 anni è normale restare incinta, e quando invece all’interno del gruppo di lavoro le ragazze restavano incinta pensavo di aver fallito. Poi capisci che è un lavoro molto lento e tra le ragazze seguite trovi anche chi, crescendo, decide di iscriversi all’università, studiare e di tornare per unirsi all’organizzazione nel ruolo di “educatore”.

Non c’è nessun intervento o aiuto da parte dello Stato?
Sabrina: In America Latina lo stato sociale non esiste, o lotti o muori. Mentre in Italia si è arrivati ad un livello di accomodamento, di “rilassamento”, dovuto alla presenza di uno stato sociale molto forte, fortunatamente capace di assicurare diritti basilari.

«Fino a pochi anni fa, nessun estraneo avrebbe osato mettere piede in alcuni quartieri pericolosi di Medellín. Ora le agenzie di viaggio offrono tour per osservare i tanti murales del quartiere o per risalire sulla lunga scala mobile i ripidi crinali della valle dove si trova la città». Così ha scritto recentemente l’Economist per spiegare come Medellín sia recentemente diventata un modello di sviluppo urbano per l’intera Colombia. Qualcosa sta cambiando?
Sabrina: Si, la situazione va migliorando ma in realtà l’esperienza in Africa mi aveva fatto maturare un’insofferenza profonda nei confronti della politica di cooperazione di tipo assistenzialista, legata esclusivamente all’idea di sviluppo. In contesti di tribù nomadi e pastori non è possibile implementare progetti di sviluppo agricolo che non tengano conto dell’identità dei lavoratori. Le politiche super-sviluppiste che guardano al plusvalore e all’accumulazione non possono essere comprese da un pastore africano. I corsi di formazione che si attivavano per la popolazione avevano aspetti quasi bizzarri: si tentava di spiegare concetti come il risparmio. In una logica africana, animista, legata al rispetto per la naturalezza, non è ammissibile sposare l’idea di accumulazione e di profitto. Era il 2009 e questo mi ha messa in crisi ed è anche per questo che ho deciso di lasciare la cooperazione governativa: lo sviluppo non esiste, è un’idea europea, occidentale, lontana dagli indigeni latini. C’è un concetto invece a cui sono molto affezionata e che è condiviso dalla maggior parte dei colombiani: il buen vivir, l’idea di poter vivere una vita in equilibrio con la natura, in armonia, un concetto legato ai popoli indigeni. Una cosmogonia. Vivere dignitosamente con l’indispensabile. La concezione sviluppista cozza con una visione di rispetto ed equilibrio, piuttosto distrugge e violenta.

Avete mai ricevuto pressioni durante lo svolgimento del vostro lavoro?
Sabrina: Quando lavori in Colombia, specie con associazioni campesine, necessariamente ti devi relazionare con chi controlla il territorio o con gruppi insorgenti o gruppi paramilitari, perché quello è lo Stato che ha avuto più attori armati nella storia. È impossibile non schierarsi e poi io non capisco e non condivido il concetto di neutralità. Nel periodo in cui ho lavorato con l’Onu abbiamo cominciato a ricevere  leggere minacce da gruppi paramilitari, ma rispetto a quello che vivono i campesini, che piuttosto vengono uccisi, queste pressioni erano nulla.

Cos’è ai tuoi occhi il femminismo oggi in Italia?
Sabrina: C’è molto lavoro da fare, c’è da fare un gran lavoro di recuperò della nostra identità, e ripartire dai grandi movimenti di un tempo. Mi rendo conto che ancora oggi in Italia le ragazze sono vittime di piccoli abusi quotidiani, piccole sopraffazioni maschiliste che si nascono nel linguaggio, nei canoni di bellezza. Sono fenomeni velati o oscurati dal nostro ordinario stile di vita e proprio per questo c’è un lavoro di rieducazione immenso da fare.

Bris Pino Rojas e Sabrina Drago

Bris, qual è la cosa più curiosa che hai notato scoprendo Palermo in questi giorni?
Bris: L’architettura dei palazzi, il non doversi preoccupare se dimentichi la borsa aperta, e poi c’è meno fisicità nel relazionarsi con le persone. Rispetto alla Colombia ci si bacia di meno, ci si abbraccia molto meno. Però la cosa che più mi ha scioccato è il tipo di ironia: attraverso lo scherzo siete capaci di dire cose molto pesanti.

Quali sono i modelli di un giovane della tua età in Colombia?
Bris: Avere una bella moto, avere le tette grandi…
Sabrina: C’è il titolo di un bestseller sudamericano di Gustavo Bolivar Moreno che dice Sin tetas non hay paraiso, senza tette non c’è paradiso. Per piacere ai narcos, alzare il proprio tenore di vita, andare alle feste che contano, possedere qualche abito firmato, avere il seno grande è indispensabile. Per questo le ragazze sono disposte anche a vendere il proprio corpo pur di riuscire a fare un intervento di chirurgia plastica. Arrivano perfino a deformarsi nella convinzione che sia esteticamente bello. Noi lavoriamo esattamente per questo: per dare alle ragazze sogni nuovi, desideri nuovi ed essere consapevoli del proprio valore.