Anteprima-sarkar

Di Lucia Pepe – Sai che c’è? Che, a volte, si cambia idea. Non avrei mai voluto scrivere di bimbi delle slum indiane, ma, a volte, si scrive anche solo per far bene a se stessi.

Anche prima di venire qui in India, con il mio lavoro si mediatrice culturale, mi sono ritrovata a confrontarmi con storie difficili, volti segnati, e ho dovuto affrontare la mia impotenza e frustrazione; ho imparato a difendermi e a difendere, in qualche modo, chi mi sta di fronte, ma, a volte, i muri crollano.

C’è un bimbo, nella slum di Kanchanjangha, a Bhubaneshswar, che ha occhioni grandi, folte ciglia, e piccoli dentini bianchi ben allineati: sì, è bello, sono tutti belli i bimbi, ma, a volte, sei così fortunato che riesci a vederne anche la bellezza interiore.

Sarkar sta in disparte, ma se ti fissa, ti travolge, allora vai lo prendi per mano e lui si lascia coinvolgere.

Ieri però, insieme ad un volontario francese, sono andata oltre, perché, a volte, non puoi farne a meno e pensi che comunque ti fermerai al momento giusto. Abbiamo chiesto della sua famiglia, con l’aiuto di una maestre, perché lui parla solo Oriya (lingua locale della regione indiana di Orissa), e scoperto che non ha genitori. E quindi? Chissà quanti bimbi lì intorno saranno nella stessa condizione. Ieri era un giorno speciale alla slum school di Kanchanjangha, un gruppo di studenti internazionali sono venuti a farci visita, i bimbi li hanno accolti da re con collane di fiori e puntino in fronte, avevano preparato spettacoli, danze, giochi, e davano il meglio di sé. Sarkar, come anche altri, non aveva il vestito della festa,

Era una giornata speciale, e una delle nostre ospiti aveva una polaroid, io e il volontario francese, nonostante avessimo appena parlato della questione “che senso ha?”, “Quanto ci si può avvicinare e poi dopo qualche mese scomparire”, chiediamo di farci scattare una foto.

Sarkar sventola il pezzettino di pellicola fra le mani sgranando sempre di più gli occhi man mano che la magia prende forma, alla fine spunta l’immagine completa, anche noi sgraniamo gli occhi: è una foto bellissima, a volte basta un solo scatto, distratto, nella confusione, eppure le nostre facce hanno sorrisi troppo felici per poter venir male.

Non so se sia più felice lui o noi della sua felicità. Scrivo in basso la data, Theo gli dice in Oriya “Non la perdere!”, e lui con le sue piccole manine, impacciato, la mette nel taschino dei pantaloni. Dopo ci prende per mano, ci porta a casa sua, giusto due metri più in là dalla scuola, c’è un anfratto, entri appena abbassando un po’ la testa, è in penombra, vedo solo che lì dentro apre una vecchia valigia, tira fuori la polaroid dal taschino, la ripone dentro la valigia e richiude: ecco ora è al sicuro.

Prima di andare via lo vedo su una collinetta creata da un ammasso di rifiuti, proprio accanto alla scuola, insieme a qualche altro bimbo, lo saluto da lontano, gli chiedo di avvicinarsi, fa cenno che non può. Intanto arriva Theo, anche lui vorrebbe salutarlo, glielo indico, non faccio in tempo a parlare, che lui si precipita lì sulla collinetta, lo prende in braccio e, solo allora, si rende conto che era lì accovacciato a fare i suoi bisogni, lui si imbarazza e poi scoppiamo tutti a ridere. A volte le storie di slum possono finire con una risata liberatoria.